Storia dei Disturbi Psichici




 Nel passato i pensieri più bizzarri, le immagini più spaventose e i sentimenti più angoscianti che albergano nel nostro intimo, e che oggi sono racchiuse nel nome di “psico-patologia”, erano materia di due specifiche branche: l’Alchimia e la Capacità del Ricordare.


Queste situazioni infatti erano considerate come stati interiori con cui l’uomo si relazionava, senza pregiudizi o timori; così, dalla necessità di trovar loro spazio, ecco che nasce l’Alchimia, cioè la prima forma di Psicologia dell’antichità.

L’Alchimia fu un antico sistema filosofico che, combinando vari elementi, dalla chimica alla religione, si proponeva di conquistare l’onniscienza, di trovare un rimedio a tutti i mali, e di trasformare il metallo in oro. Ma le operazioni che l’Alchimista eseguiva sulle cose come il sale o il piombo, erano, nello stesso tempo, operazioni sulla sua angoscia, sulla sua lentezza depressiva. Questi stati interiori venivano quindi “agiti” sui materiale, l’uomo riusciva a relazionarsi con essi, considerandoli come parte della sua natura.

La capacità del Ricordare fu un altro sistema che l’uomo trovò per esprimere la propria “patologia”: questa capacità era impiegata per ordinare la memoria, per ricordare più cose possibili. In breve si producevano immagini distorte di persone, fino a farle diventare orribili e disgustose (patologiche insomma) così che fosse più facile ricordare ciò che ad esse era collegato.

Quindi vediamo come nel passato le nostre ansie, ossessioni e pensieri più strambi avevano un loro spazio entro cui esprimersi, tanto da poter essere utilizzate dall’uomo, che sapeva di essere abitato oltre che dalla “ratio” anche dall’irrazionale e dalla follia.

Oggi che la scienza e la tecnica hanno ipervalutato la nostra razionalità, bandendo tutto ciò che non è razionale, (l’Alchimia fu dichiarata pratica eretica nel ‘500) che fine ha fatto quella follia che ogni tanto fa vacillare le nostre sicurezze? A chi è stato assegnato oggi il compito di occuparsene?

È stato assegnato alla Psichiatria (che è una Pratica Medica, e non un “logos”, cioè non è un sapere costruito su chiare basi concettuali) o alla Psicologia, che però sembra non facciano altro che allontanarci dal dialogo con la nostra follia, che, non più riconosciuta come parte di noi, assume quei contorni così inquietanti che la Psichiatra si limita a descrivere: quando infatti i disturbi dell’anima sono chiamati “malattia” e sono diagnosticati in termini di “psicopatologia” i rimedi diventano chimica e il mondo interiore viene “oggettivato”.

Il risultato di questa operazione ci fa credere di conoscere ogni angolo del nostro Profondo Interiore, solo perché abbiamo parole che lo descrivono, dimenticandoci che quelle parole non sono nostre, ma sono prese in prestito da quel linguaggio medico che, oggettivando il nostro vissuto interiore, fa tacere le nostre parole, i nostri significati, i nostri sensi.

Oggi infatti tendiamo a vedere il disturbo come un qualcosa da eliminare, come un qualcosa che ha interrotto quel piatto e monotono benessere a cui eravamo abituati prima dell’insorgenza dello stesso. E se il problema non stesse tanto in quel sintomo, quanto in quel benessere che ci rende così uguali?

Non è forse in quello che crediamo benessere che ci ritroviamo, come dice Heidegger, a “passarcela e a divertirci come ce la si passa e ci si diverte” soffocando così la nostra individualità? Ecco allora che il sintomo può essere occasione per riflettere e per dare un senso non precostituito a quella “normalità” che abitavamo prima della sua insorgenza.