"Perchè è successo a me?": colpa, religione e felicità

La felicità muta col cambiare dell'assetto sociale e storico: diversa è la felicità e i mezzi per raggiungerla in un contesto cristiano rispetto al mondo greco, così da quello industrializzato. Ma il contesto non dipende da me. Mi ci calo, lo vivo, ma non dipende da me.

Le religione ci ha insegnato che buoni comportamenti sulla terra corrispondono a vita felice nell'aldilà. Tale assunto parte dal presupposto che l'uomo è libero di scegliere il male o il bene, così che davanti ad una tragedia (malattia, morte, etc) l'uomo non può far altro che considerarla come una punizione personale a cui si reagisce o urlando contro Dio o divenendo sempre più spietati nella lotta contro se stessi. Ma all'uomo tale libertà di scelta non è data a priori. Essa va conquistata, a volte al caro prezzo del sacrificio dell'Io stesso.
 
Se è l'Io ad essere messo al centro di tutto, l'Uomo si trova a dover sopportare un peso ed un carico eccessivi rispetto alle sue possibilità. Perchè, come ben spiega Baget Bozzo, Dio ha creato la vita, ma non la "mia" vita che è un frammento dell'esistenza. E portare quel frammento di Io al gradino più alto come referente di tutte le tragedie che gli accadono significa aggravarlo della tragedia più grande di tutte: quella di credersi unico. Quando davanti ad una tragedia ci chiediamo "perchè a me" sbagliamo semplicemente mira, perchè quella cosa non è accaduta a noi, per noi o contro di noi, ma alla vita.
 
Togliendo il peso dell'Io l'uomo si libera dal sentirsi in colpa e allora può iniziare la strada del bene non perchè porta ad una ricompensa ma perchè solo incontrando l'altro è possibile incontrare se stessi, solo lasciando spazio di vita all'altro è possibile vivere una propria vita e perchè solo incontrando il dolore dell'altro è possibile incontrare il proprio dolore e chiamarlo con lo stesso nome....SC