L'esser pensati: dall'Amore alla Solitudine



Si sa, e la psicologia ce lo conferma, che per strutturare la nostra identità, il nostro essere, abbiamo bisogno dell'Altro: il nostro Io cioè non è tanto "mio" non è tanto, come crediamo, quel nucleo privato che si costituisce a presciendere dal mondo, ma bensì è il nostro rapporto con il mondo, uno scambio continuo con esso.


Abbiamo bisogno dell' Altro in quanto è solo grazie all'Altro che possiamo essere pensati: abbiamo  bisogno di sapere che l'Altro ci pensa, che l'altro ci immagina in un modo o nell'altro ed è proprio questo il "dualismo" che percepiamo nei nostri dialoghi interiori, quando segretamente parliamo con noi stessi.

Questa nostra necessità è ben evidente in Amore.
Ciò che in Amore chiediamo all'altro infatti è prima di tutto la certezza di essere pensati: questo ci esalta e ci toglie dalla sconfinata insignificanza a cui, senza amore e quindi senza riconoscimento, saremmo gettati.  
L'esser pensati è quel filo invisibile che traccia le nostre esistenze: in amore il modo in cui l'altro ci pensa coincide con il nostro stesso modo di pensare noi stessi, ed è questa coincidenza che fa scattare quell'empatia che solo gli amanti conoscono. Essi si capiscono al volo, senza bisogno di parlare, proprio perchè il modo di immaginarsi dell'uno coincide con il modo in cui l'altro lo immagina, e viceversa.

Se l'altro invece ci pensa in modo diverso da come noi pensiamo noi stessi, ecco che scattano le incomprensioni, la rabbia, il risentimento. E questo non solo in amore: l'altro ci è ostile se percepiamo che il suo modo di pensarci è diverso da come noi vorremmo esser pensati.

In entrambe queste modalità, siamo sempre e comunque pensati.
Ma cosa accadrebbe se invece percepissimo di non essere più pensati da nessuno?
Potremmo ricorrere a quell'estremo tentativo che il religioso ci offre: c'è sempre e comunque un Dio che mi pensa. Ciò che infatti chiediamo a Dio, dietro alle consuete richieste, è sempre e solo la certezza di esser pensati: parliamo con Dio per aver la certezza che Egli ci pensi, che abbia un immagine di noi.  Infatti dietro a tutti i tentativi naufragati di immaginare Dio, possiamo reperire il nostro profondo bisogno di essere noi stessi immaginati da Dio.

E se anche questo estremo tentativo naufraga, non resta altro che chiedere di essere immaginati e pensati alle cose del mondo: ma le cose, lo sappiamo, non possono pensare in quanto non hanno tracce di umanità (come invece era per gli animisti), e allora, in questo sforzo disperato e allucinato ben descritto dalle psicosi, le cose perdono il loro senso e la loro collocazione nel mondo.

Fallito anche quest'ultimo intento, non resta altro che la Depressione più cupa, dove si annega in quella assoluta solitudine di chi non vuole più essere pensato o di chi così si percepisce.
La solitudine allora non si trova tanto nello staccarsi dal mondo, quanto dal congedarsi dal pensiero altrui: se neanche più le cose del mondo mi pensano, io non posso più pensare a me stesso e così il mondo scompare e con esso anche le ultime tracce di quella perduta identità. S.C.